PROPHECY – La pianta di rose

Una storia di amore e confusione. Una profezia e un cespuglio di rose… Un racconto che nasce da una storia vera, raccontatami tempo fa.

Chissà perché mi uscirono quelle parole, mentre le porgevo quella dannata pianta. Una piantina di rose, belle, profumate e deliziose, non c’è che dire – regalo adatto per il primo anniversario dal nostro incontro. Avevo scelto bene e Magda mi aveva sorriso in quel suo modo estatico – e forse fu questo che mi fece aprire la bocca e le parole rotolarono fuori piene di entusiasmo: “Eccola, questa piantina sarà la Custode del Nostro Amore!”. 

Non avevo finito la frase che ero già pentito. Magda stava già annuendo con una dolcezza disarmante. Una pianta. Una pianticella che avremmo dovuto trapiantare nell’arco di pochi giorni – già Magda stava indicando la posizione propizia – in base a che, non so bene, visto che né lei né io eravamo dotati di pollice verde. Anzi, pollici nerissimi, tutti e due. Il giardino infatti sopravviveva per conto suo e per le rare cure che il mio futuro suocero veniva ogni tanto a dare alle pianticelle, quando capitava in città. 

La Custode del Nostro Amore: l’avevo pronunciata proprio così, con le maiuscole, e sapevo bene che Magda con le Maiuscole l’aveva ricevuta, la mia tragica affermazione. I giorni successivi testimoniarono che avevo ragione: Magda guardava la pianta con una tenerezza esagerata, e sembrava cogliere esoterici abbinamenti tra i nostri episodi di vita di coppia e la crescita della pianticella. A suo parere, ma ormai anche al mio, la pianta cresceva splendidamente quando noi stavamo splendidamente: facevamo l’amore splendidamente oppure ridevamo splendidamente e splendidamente conversavamo così via. 

Un giorno litigammo in modo furibondo e il giorno dopo la pianticella era infestata dai pidocchi. I pidocchi della rosa, certamente, ma anche i pidocchi delle nostre urla, rinfacci e sbattute di porta. Insomma quella pianta aveva preso sul serio il suo compito di Custode e io cominciai a temerla, a evitarla e infine a odiarla. Oh, continuavo ad amare immensamente Magda e tenevo tantissimo alla nostra relazione, tanto che pensare di averla affidata a un idiota di vegetale mi sembrava giorno dopo giorno prova di un attacco di demenza.

Non potevo andare avanti con tutto quell’odio, mi rendevo conto che rischiava di trapelare. Quindi decisi che dovevo curare meglio la pianticina, che nel frattempo era cresciuta baldanzosa; decisi di seppellire la mia avversione e di fare le cose giuste al momento giusto. Così la innaffiai abbondantemente, e rischiai di farla morire annegata. 

Magda mi guardò con aria stupita, come se stessi versando acqua gelata su noi due per far morire tra i flutti la nostra relazione. Non lo disse, ma io glielo lessi in faccia. Infatti lei non diceva mai nulla, su questa perfida correlazione tra la piantina e noi, ma le sue facce, i sospiri, gli sguardi parlavano più di mille parole. 

Cominciai a restare di più a casa mia. Avevo ancora in affitto il monolocale dovevo vivevo stabilmente prima di conoscerla e che era a due passi due dallo studio dove lavoravo. La scomodità erano i cinque piani senza ascensore – era per questo che costava così poco. Addussi un periodo di superlavoro e mi concessi di non rientrare in quella che fino a poco tempo prima avevo considerato anche la “mia” casa e che ora consideravo la casa della perfida Custode del Nostro Amore, se non ogni due o tre giorni, e poi tre o quattro. 

Devo dire che la pianta non deperì affatto: anzi, sembra crescere in modo sempre più esuberante  e cominciai a pensare che lei stava senz’altro meglio senza di me. Magda no, almeno a suo dire; una sera infatti mi capitò a casa che mi ero appena steso sul letto con un nuovo libro e mi propose tutta seducente di andare a mangiarci una pizza insieme. Uscimmo. La piazzetta antistante era circondata da piccoli bar, dehors e trattorie; mangiammo la pizza, bevemmo delle ottime birre ed ero così felice che proposi a Magda di dormire da me, e ci rotolammo tra le lenzuola come non avveniva da tempo. Da quando era entrata la pianta nella nostra vita, posso dire. Magda aveva gli occhi stellati, e io mi sentivo un leone. Stavo per addormentarmi abbracciato a lei, quando Magda si riscosse: devo tornare, mi disse, domattina alle 7 arriva mio padre per curare il giardino, e non l’ho avvisato. Rise: per fortuna che c’è lui per la nostra bella rosa!

Così sgusciò fuori dal letto e tornò alla casa. La casa sua e della rosa. 

Ero roso dalla gelosia. La “nostra” pianta affidata alle cure di quel burbero di mio suocero! 

La sera dopo rientrai a casa e mi fermai in giardino a osservare la pianta. Che era cresciuta oltre ogni dire e aveva spine dalla punta rossastra grosse come artigli. Tentai di cogliere una rosa e pur stando attento mi punsi un paio di volte; la offrii a Magda con dita insanguinate e lei si mise a ridere, poi andò a prendere il disinfettante. 

Affrontai il tema alla larga, chiedendo come stava suo padre e così via; poi suggerii di liberare il pover’uomo dall’impegno del giardino, e di cercare un giardiniere nei dintorni, che avrebbe fatto senz’altro un lavoro migliore… Migliore di quello che fa mio padre?, scattò stizzita Magda, e andò a finire che litigammo in quei modi idioti che dopo ti dici – ma ero davvero io? Era davvero lei?  Fatto sta che quando andammo a dormire Magda mi voltò la schiena e non si girò per tutta la notte, mentre io ripensavo alle meraviglie erotiche della serata precedente e non potevo darmi ragione di un cambiamento di quel genere. Cosa avevo detto, poi?

Alla luce degli eventi, ero certo che Magda fosse sicura che la pianta, ferendomi, aveva voluto darci un avviso. Dare a lei, un avviso. Un avviso su di me. Ormai il dialogo tra la pianta e Magda doveva aver raggiunto livelli di raffinatezza impensabili, o almeno irraggiungibili a me, misero umano maschio privo di intuizione e sensibilità. Perché queste parole erano uscite dalla bella bocca morbida di Magda, la sera prima, durante il nostro litigio. “Privo di intuizione e insensibile”. Peggio della spina nel dito. 

Ripresi a dormire nel mio monolocale, arrampicandomi fino al quinto piano e a ogni piano maledicendo quella rosa e quell’idiota che ero stato io. Ormai mi sentivo in trappola. Era troppo tardi per stroncare quella pianta in qualsiasi modo subdolo, perché la connessione tra il suo stato di salute e noi due era per Magda una realtà incontestabile. Qualunque cosa avessi fatto alla pianta, l’avrei fatta a noi. Al tempo stesso la pianta lavorava contro di noi, ormai ne ero sicuro. Insomma diventai geloso di quell’intrico verderosa di foglie e petali e spine. Naturalmente non lo avrei detto neppure sotto tortura. 

Magda non venne a cercarmi. Io non andai a cercarla. Ebbi alcuni incubi in cui una pianta carnivora dai fiori rosa mi inseguiva e mi divorava. Naturalmente un tale tipo di sogno non invita a ritornare sui luoghi, ben reali, che lo ha generato. Poi lei mi telefonò: naturalmente non parlò della pianta, perché mai lei aveva fatto capire il ruolo centrale della rosa nella sua visione di noi due; mi parlò di altro poi mi disse che le mancavo. 

Così tornai. Giusto in tempo per imparare che aveva appena assunto un giardiniere, un tale Nelson, per stare dietro al giardino. Completamente dimentico che ero stato io a perorare la causa di un’altra persona al posto di suo padre, sgranai gli occhi e dissi: Anche per la nostra Roooosa?. Magda mi guardò sbigottita: Ah, ti importa della Rosa dunque. 

Certo, dissi io, mi importa, e so quanto importa a te. Okay era tutto un linguaggio metaforico. Tutto un simbolo di noi due. Camminavamo su questi argomenti come su un tappeto di uova. Certo che mi importa, ripresi, e questo tipo dal nome strano, come hai detto che si chiama…

Nelson, ho detto. E non è un nome così strano. E’ mezzo inglese. 

Eccolo, il pollice verde, giunto tutto agghindato e ancora nebulizzato di pura pioggia inglese, pronto a curare la Nostra Rosa, pensai sgomento. 

Com’è?, chiesi. Magda mi guardò irritata. Com’è cosa? Non cosa, dissi io, “chi”. Uno che ha il nome di un ammiraglio, anzi il cognome di un ammiraglio…

Senti, la pianti? Disse Magda alzandosi di scatto. Io non ti capisco più. L’importante è che sia bravo, non ti pare? E bravo lo è, te lo assicuro. 

Non so perché io me lo vidi bravo a letto. Bravo ad avvolgere Magda in abbracci verde foglia, a farle cadere sul corpo petali di rosa, a … Cercai di fermare le orrende immagini, che certamente mi stavano arrivando dalla pianta che, come al solito, stava lavorando contro di me. Attraverso la vetrata ancora aperta, intravedevo la sua forma, scura nella sera. Sentivo nell’aria il profumo ormai malefico di quei fiori, che tessevano trame oscure a mia insaputa. 

In una specie di stordimento rosesco, continuai imperterrito a porre domande sempre più idiote sul Nelson, ogni volta irridendo le parole semplici con cui Magda mi obiettava colpo su colpo. Provavo un gusto masochista nel farmi colpire dalle risposte di lei, che difendeva a spada tratta il “suo” giardiniere. Non l’hai mai visto, diceva, perché mai ti accanisci così? E’ un uomo competente, una persona appassionata a quello che fa. 

Più lei lo difendeva più io diventavo ottusamente perfido. A un certo punto Magda si alzò dal divano con aria sfinita: Senti, mi disse, forse è meglio che vai a riflettere a casa tua. Io non ti sopporto più. 

Sarebbe bastato che le chiedessi scusa. Perché una parte di me sapeva benissimo che stavo dicendo delle idiozie, non degne di me e men che meno di lei. Ma non lo feci. Il profumo delle rose mi era entrato in ogni singolo neurone ottundendolo completamente. La testa era un’ampolla di stupido e mefitico profumo di rosa, e fu con questa sensazione – fisicamente reale – che mi alzai e me ne andai dritto come uno struzzo e rigido come un carabiniere. 

Un paio di giorni dopo, lo studio dove lavoravo mi mandò in missione in Inghilterra, per un progetto con una consociata. Partii a razzo, e decisi di non chiamare Magda. L’avrei cercata da Londra. Cosa che non feci. Da Londra mi spedirono in Irlanda e poi, dopo un breve ritorno di un paio di giorni in Italia, feci il viaggio più importante della mia carriera: negli Stati Uniti. Alla casa madre. Con un incarico importante. 

Telefonai a Magda un paio di volte, senza trovarla. Le lasciai poche parole fredde e spinose in segreteria. Lei mi cercò, ugualmente senza trovarmi, e mi lasciò detto che se dovevo chiamarla in quel modo, era meglio che non lo facessi. Ah, con le cure di Nelson le rose son rifiorite, giusto che tu lo sappia. 

Ah, come è perfido il linguaggio metaforico. Tutto divenne chiaro. La pianta Custode stava ora custodendo un altro amore. Vagai un intero pomeriggio per New York, assalito dagli odori forti degli hot-dog e dei fritti, sempre comunque mischiati con quel perfido oleoso odore di rosa. Un tormento. La casa madre mi propose di fermarmi un anno lì, per imparare le nuove tecnologie da portare poi in Italia e dissi di sì. Il bravo Nelson era stato un campione, si era preso la mia donna e la mia pianta. Se fossi rientrato, lo avrei strozzato con steli di rosa attorno al robusto collo inglese. 

Alla fine, sono rientrato solo dopo sei anni, in Italia. Scapolo, ricco, conosciuto nel mio campo che è di nicchia ma comunque noto. Se fossi rimasto accanto a Magda, nulla di tutto ciò sarebbe accaduto. Era stato un turbine la mia vita, a New York. Compresi amori e amorazzi vari, vissuti con aria cinica fin dall’inizio. Mai regalata una rosa. Mai fatto una promessa. 

Cammino per le strade attorno alla villetta di Magda cercando il me stesso che ero. Pieno di paturnie, certo. Insicuro ma brillante, mi definivano. Più o meno tutti. Magda vedeva più la mia insicurezza, temo. Che poi la parte brillante davanti a lei chissà com’è non compariva quasi mai. Giro e rigiro e i ricordi emergono – la sera che uscimmo per andare al cinema e invece ci fermammo in un pub a raccontarci le nostre vite; quelle risate pazze; le lacrime di lei davanti a un tramonto, la volta che inciampò sul marciapiede e io la sostenni e capii che avrei voluto sostenerla per tutta la vita… Insomma uno strazio. I ricordi sono uno strazio. 

Gira e rigira, finisco per fermarmi davanti alla villetta. Il giardino è ben curato e là dove avevamo piantato la nostra rosa c’è ora un’intera siepe lussureggiante di rose, tutte figlie della nostra suppongo visto che ne hanno lo stesso colore e forma. Siamo in maggio e tutto il confine del giardino, da quella parte, è un tripudio di rosa carico, un olezzo che si spande intorno e mi fa girare la testa. La porta della villetta si apre e un bimbetto di circa quattro anni corre fuori ridendo come un matto, prendimi! prendimi! urla e dietro di lui corre sua madre che poi è Magda, peraltro pure incinta ma sempre bella, con il solito sorriso che ora vola dritto sul suo bambino. Sul figlio di Nelson. 

Non riesco a scappare in fretta. Lei mi vede, mi sorride, si avvicina al cancello. Il bambino continua a correre, ha trovato un pallone e si è perso nel suo gioco. 

Come stai? Mi chiede.

Son tornato. 

Lo vedo. Sorride e lancia un’occhiata al bambino, che ora si sta rotolando sull’erba. 

Hai, hai… bello il bambino. Come si chiama?

Giorgio. 

E’ un bel nome. Pensavo avresti scelto un nome inglese. Già mentre dico ‘sta frase vorrei ricacciarla in gola. 

E perché avrei dovuto scegliere un nome inglese?

Beh per suo padre, no? Per Nelson. 

Magda inizia a ridere a gola spiegata. Mi viene in mente che quella sua risata la trovavo esagerate anche quando ero stato super-innamorato. Una risata che ti fa cadere giù da qualsiasi torretta o basamento tu abbia voluto costruire sotto di te, così, giusto per sentirti un po’ sicuro. 

Ma pensavi davvero che ci fosse qualcosa? E’ per questo che te ne sei andato in quel modo orrendo?

La faccia di Magda è limpida, i suoi occhi sono limpidi. E’ sempre stata di una limpidezza insopportabile, per uno come me che vive di trasalimenti e metafore e sotto-significati. Cambio discorso. 

La pianta… le rose… sono diventate bellissime. 

Se ne prende cura mio marito. Che si chiama Leonardo. 

Sai, io credo che quelle rose ci hanno fatto male…

“Ti” hanno fatto male. L’avevo visto, che stavi costruendo una strana fantasia su quel cespuglio, ma non immaginavo fino a qual punto. 

Fantasie? Eri tu quella che ci teneva tantissimo. 

Io? Certo che ci tenevo; ma mica ne ero fanatica. 

Quindi il fanatico ero io…

Ascolta, caro: non ho nessuna intenzione di ripercorrere le follie degli ultimi due mesi della nostra relazione. Quel tuo rimuginare si chiama “profezia che si auto-avvera”, sai? Beh, io ora sono sposata, innamorata, felice; per tua conoscenza, ti ho aspettato più di un anno. Ora un marito delizioso e un bambino altrettanto. E ora aspetto una bimba. E le rose, sì, quelle meravigliose rose che ora splendono come puoi vedere, sono davvero le Custodi dei miei Amori. Ti auguro una vita altrettanto felice. 

Magda si gira di scatto e si avvia verso il suo bambino. Avrei voluto chiederle che nome intende dare alla bimba. Ma non credo che ci sarà un’altra occasione. 

4 Commenti

  1. Simonetta

    I dubbi, le paure e le ansie dovrebbero essere sempre palesate al nostro partner…. Al fine di evitare sofferenze inutili e la costruzione di castelli di carta…..

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  2. Franca Errani

    Ciao Simonetta grazie del tuo commento. Quello che mi interessava evidenziare è come in certe situazioni vi sia un aspetto proiettivo così forte che tutto viene "letto" in modo deformato. Questa storia è vera, con ovvie varianti. La frase scatenante – "La Custode del Nostro Amore" diventa nella mente del protagonista una sorta di carcere, improvvisamente la relazione gli diventa gravosa, perché scatta una responsabilità che fino a quel momento non si era dato. Anziché capire la cosa e riflettere su quale fosse per lui la giusta "distanza" relazionale, si è ficcato in una sorta di turbinio di deliri… 🙂 La situazione io l'ho un poco romanzata, ma non più di tanto. Sto pensando infatti di sviluppare racconti che si basino su esempi reali, elaborati ovviamente, come forma "mista" di storia e counseling. Cosa ne pensi?

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  3. Cinzia

    Bellissimo ripercorrere modalità di 'profezie autoavveranti' in cui si è incappati qualche volta nella vita. Che si sono svelate e comprese dopo. Che spesso hanno portato dolore inutile, è vero, ma anche 'effetti collaterali' positivi e inaspettati, anche se non immediati. Perché in fondo, se qualcosa accade, abbiamo bisogno proprio di quella lezione…

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  4. Franca Errani

    cinziadimonte09@gmail.com
    Grazie Cinzia per le tue considerazioni. E anche l'espansione al tema della "necessità" di un certo accadimento, per gli sviluppi che poi può portare…
    F

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